martedì 6 maggio 2014

Abbazzia di Fossanova

Chiesa
La facciata è caratterizzata da un movimento di linee, dovuto alla presenza di un ricco portale, di uno splendido rosone, di un oculo ottagonale in alto, di due timpani che sembrano richiamarsi l’un l’altro, di contrafforti e di cornici. Con il mosaico della lunetta del portale, con i vari giochi di luce e di ombre, dovuti alle sgorgenze e rientranze, con il tipico pigmento della pietra nuda, essa tradisce un intento pittorico che è assente nell’interno della chiesa. Due zone divise orizzontalmente nella facciata da un cornicione: in quella superiore fa bella mostra il grandioso rosone dalla forte strombatura, ricco di colonnine che, diramandosi da un cerchio lobato centrale, si riannodano ad archetti gotici che richiamano lo stile della chiesa. Da un arco a sesto acuto appena accennato, iscritto nella massa muraria ed avvolgente in alto il rosone, sembra di poter dedurre che questo sia stato realizzato in un secondo momento rispetto all’interna facciata per facilitare, forse, la lettura dei monaci in preghiera con una luce più abbondante. Più in alto, un elegante timpano, centrato da un occhio ottagonale che ritroviamo anche nei timpani del transetto e dell’abside, con doppio ordine de dentelli che si ripetono ai lati, guida l’occhio per tutto il perimetro della cornice all’ammirazione del gioco tra i pieni a i vuoti della massa, all’alternanza tra i robusti contrafforti e le rientranti monofore a tutto sesto. Due pilastri delimitano l’ampiezza della facciata, quasi sorretta lateralmente dalla sagoma delle due navi laterali che contengono e danno slancio, in una struttura salda, armoniosa ed equilibrata, alla navata principale. Dove sembra che la robustezza esterna della chiesa ceda all’eleganza, è nello slanciato tiburio che nelle chiese cistercensi, prive di torre campanaria laterale, tiene il posto del campanile. Esso è stato quasi completamente ricostruito, secondo il gusto tardivo del secolo XVI, dal cardinale Aldobrandini, dopo che un fulmine lo aveva seriamente danneggiato. Come appare ora, ha pianta ottagonale (è la figura che ritroviamo spesso nei vari occhi e nel rosone dell’abside), sormonta il punto centrale del transetto e forma quasi la chiave di volta dove vanno a confluire i costoloni, unici nella chiesa, della crociera mediana, come si vedrà meglio in interno. Consta di due sovrapposti, divisi da cornici con dentelli, trapunti in ogni lato dell’ottagono da una bifora a sesto acuto con colonnine binate. Lo stesso schema si ripete nel lanternino superiore, reso più agile dalla croce che si staglia nel cielo. Poiché le dimensioni del campanile sono notevolmente ridotte rispetto all’ampiezza della crociera su cui poggia, è da pensare ad uno sforzo non privo di abilità tecnica in quei costruttori ardimentosi che non conoscevano l’uso del cemento armato. Lo slancio verticale del tiburio, della lanterna e della croce, risente già del nuovo gusto che si andava rapidamente affermando in tutta l’Europa, il barocco. Se qui il barocco sembra fondersi con il gotico, non è da meravigliarsi, sia perché i restauratori vivevano in pieno clima barocco, sia perché questo stile è visto da alcuni – per alcuni versi, si intende, e giustamente – come una lontana derivazione del gotico. Il tiburio spezza, in qualche modo, l’armonia di tutto il complesso, anche se con i recenti restauri ha acquisito una tinta di civettuola gaiezza. La chiesa, adagiata in un avvallamento, si presenta al visitatore nell’incanto del suo splendore. L’entrata è costituita, attualmente, da un portale a sesto acuto profondo con tre archi concentrici e modanati, sorretti da altrettante colonnine con capitelli sfarzosi; il tutto è sormontato da un timpano, compreso nel rilievo appena accennato di un arco a sesto acuto, ed è illeggiadrito dalla lunetta che, nell’incurvatura degli archi, accoglie una serie di colonnine e di archetti a petali che si espandono a ventaglio, e da pregiate decorazioni musive di probabile attribuzione cosmatesca. Dal mosaico, certamente sovrapposto in pieno secolo XII, è rimasta coperta l’iscrizione: “Fridericus Imperator semper augustus hoc opus fieri fecit”. Il Barbarossa dunque – come è stato già detto – ha contribuito a proprie spese alla costruzione del portale per cui monaci, a titolo di riconoscenza, hanno sovrapposto al rosone un lembo litico di corona imperiale. A giudicare dagli accenni di archi, dagli addentellati rimasti sulla parte inferiore della facciata, si deduce che il progetto originario prevedeva certamente un atrio a tre luci, successivamente caduto disfatto. Il visitatore, intanto, dopo aver oltrepassato il portale, si ritrova in un interno grandioso e monumentale, ricco di spazio e di luce, che si riannoda, per pianta e per costruzione, al tipo comune della basilica cristiana, privo tuttavia dell’arco di trionfo, del catino, delle decorazioni e degli stucchi. Sono presenti, invece, le grandi aree rettangolari allungate che formano le tre navate di cui due, quelle laterali, notevolmente più basse e ridotte rispetto a quella centrale. La navata centrale è spezzata dal transetto trasversale con cui si dispone in forma di croce latina. Al di là del transetto, essa termina in una semplicissima abside quadrata, secondo lo stile cistercense, abbellita solo da un rosone lobato in alto e da tre monofore con alabastro in basso. Questa prima zona della chiesa anticamente era occupata dal coro dei fratelli conversi. Vi si accedeva dalla porta che si vede a destra, detta appunto porta dei conversi, la quale osservata dall’esterno del passaggio, si presenta a tutto tondo come quasi tutte le porte dei monasteri cistercensi, movimentata in alto da una bella croce con elaborazioni ornamentali. Sul pavimento, quasi al centro della chiesa, una pietra tombale copre il vano riservato alla sepoltura dei religiosi dopo che il cimitero monastico non fu più utilizzato. Nel pilastro a sinistra, l’ultimo rispetto a chi entra, un’iscrizione ricorda:

HUIUS AEDIS MAIOREM PARTEM 
TURRIM SACRUM ATQUE ARAM MAXIMAM
ICTU FULMINIS DEIECTAS
PETRUS CARDINALIS ALDOBRANDINUS CLEMENTIS VIII PONT.FRAT
RIS FIKUIS
HUIUS MONASTERII PERPET.COMMENDATARIUS
RESTITUIT
ANNO SALUTIS MDXCV

E’ questa la documentazione storica dei danni e dei restauri cui si è accennato quando abbiamo parlato del tiburio. Intanto non sfugge l’effetto luminoso che piove dalle numerose monofore fortemente strombate, ravvivato dall’aureo pigmento delle pareti nude, che manifestano la bravura dei lapicidi. L’assenza di motivi pittorici e ornamentali dimostra come fosse ancora forte la tendenza costruttiva che si riallacciava al romanico ed evidenzia anche la felice simbiosi, l’equilibrio classico, tra la volumetria e armoniosa di forza e di grazia ed esprime lo sforzo dell’uomo che, nello slancio verso l’alto, non rinnega ma trasumana la materia. Un leggero verticalismo traspare nei numerosi archi ogivali dal taglio quadrato e nelle agili colonnine pensili che, sporgendo dai robusti pilastri, sorreggono le arcate della volta ripartita a crociera dalle nervature appena accennate. Solo la crociera centrale, all’incrocio tra la navata centrale e il transetto, è evidenziata da costoloni molto pronunciati. Sul marcapiano, in corrispondenza della sommità degli archi longitudinali a doppia ghiera che immettono nelle navate laterali, sono realizzate delle nicchie che hanno l’evidente scopo di liberare le pareti da un peso eccessivo. Il cornicino litico che scorre sopra gli archi laterali spartisce la parete e frena la spinta ascensionale e, a guisa di nastro, riannoda la parte superiore dei pilastri. Disposto ad altezza disuguale, secondo i tratti di perimetro della chiesa, lascia supporre che il livellamento del pavimento sia opera posteriore. Nel lato est del transetto, le quattro caratteristiche cappelle, contenute dentro il muro di fondo, affiancano la grande abside rettangolare che contorna l’altare maggiore in pietra bianca, su cui le tre monofore e il rosone lobato retrostanti fanno spiovere una luce attutita, quasi metafisica, la quale contrasta la cascata di luce proiettata dal rosone della facciata. La volta della campata d’incrocio, su cui si innesta il tiburio, è caratterizzata da una calotta vitrea, dai cui grossi fori penzolano le funi delle campane. In fondo al lato destro del transetto, sotto tre eleganti monofore, si apre la  porta della sacrestia e scende la scala che mette in comunicazione il dormitorio dei monaci con la chiesa. In fondo al lato sinistro, sotto un affresco molto deteriorato, si apre la porta dei morti che immetteva nell’antico cimitero monastico dove riposano insieme, nell’attesa della beata risurrezione, coloro che insieme sono vissuti nel servizio del Signore. Dalla disposizione, perfino dalla denominazione degli elementi e degli ambienti, risalta l’estrema funzionalità di una costruzione cistercense, il cui impianto è in funzione di vita, la cui struttura è un riflesso di spiritualità. La razionalità a servizio della funzionalità rispecchia, nella semplicità spoglia ed euristicamente bene articolata degli elementi, la bellezza, senza infingimenti e camuffamenti, di un serena comunione con gli altri. L’affresco sulla porta dei morti e quelli di cui restano le tracce nel lato sinistro dell’altare maggiore (san Tommaso con in mano l’ostensorio e posta di sotto, l’iscrizione “hic requievit – corpus Divinith – me aquinat – is A.D.1274” , sono i soli realizzati nella chiesa, mentre gli altri – il crocifisso, le teste probabilmente della Vergine e di san Giovanni Battista nell’ultima cappella del braccio sinistro del transetto, il quadro della Madonna delle Grazie sull’altare della prima cappella del lato sinistro – sono stati trasferiti dai locali interni dell’abbazia. Tutti vengono attribuiti a pittori locali, operanti anche a Priverno, tra il XIV e il XV secolo. Ad epoca più recente, invece, appartengono gli affreschi, ridotti in stato precario, della cappella della Madonna delle Grazie, e di quella in fondo al lato destro del transetto. E’ facile riconoscere in essi i canoni della pittura sei – settecentesca, che mal si intona all’austera bellezza della chiesa. Queste incrostazioni storiche non riescono, tuttavia, a distogliere lo spirito dalla grandiosità e dalla serenità dell’architettura che si dispiega in tutto il suo splendore. L’impiego architettonico di figure geometriche le più  semplici, disposte in proporzione, il sereno equilibrio tra i pieni e i vuoti, il movimento delle masse, rotto dallo scatto delle colonnine che partono dai pilastri e dallo slancio delle monofore a sesto acuto, la luce che scende a cascata dai rosoni, cerano un’atmosfera di grazia. L’assenza di ornamenti – pitture, stucchi, decorazioni – sottolineata dalla semplicità della pietra nuda tenuemente colorata, non impoverisce la chiesa, ma accresce il fascino esaltandone la disposizione intellettuale dell’insieme, concepito come unità organica indivisibile. Un senso di riposo e di pace pervade lo spirito, quasi un invito a raccogliersi in preghiera. La chiesa traduce, architettonicamente, il senso di ordine, di disciplina, di semplicità, di austerità e di elevazione spirituale nella vita monastica. Vi si coglie un’integrazione perfetta tra struttura architettonica e spiritualità monastica, la concretizzazione dell’ideale di san Bernardo, cha ha dettato le norme per la strutturazione razionale degli edifici – la pianta bernardina – perché risultassero più adatti alla crescita interiore dei monaci.

Chiostro
Dall’interno della chiesa si imbocca, a destra, una porta che conduce al chiostro: è la porta dei coristi così detta perché vi entravano i monaci quando, lasciando i lavori in cui erano impegnati, si portavano in chiesa per l’opus Dei. Ad essi era riservata la seconda metà della chiesa, la più vicina al presbiterio.
La porta, nell’esterno del chiostro, è incorniciata da un portale romanico dalle colonnine inanellate e dalla lunetta con una bella decorazione pittorica, raffigurante la Madonna con il Bambino tra le sante Lucia ed Apollonia, di probabile autore locale tre-quattrocentesco.
Nel sottostante pavimento affiorano particolari storici della vita dell’abbazia. In un gradino è riportata l’iscrizione: “Hica requiescit Johs de Supino”.
L’iscrizione, riportata forse da un altro posto, ricorda la tomba di un certo Giovanni di Supino, non ancora identificato.
Accanto al gradino e a ridosso del muro, una pietra, che in origine doveva essere all’entrata della chiesa o del monastero, è rimasta segnata, secondo la tradizione, dalle impronte del mulo cavalcato da san Tommaso d’Aquino nella sua venuta all’abbazia, come spiega l’iscrizione: “Pedate del mulo di s.Tommaso d’Aqu”. Al di sopra di questa pietra, incavato nel muro, vi è una nicchia in cui i monaci depositavano i libri della lectio divina quotidiana. Segue il locale dell’armarium nel cui interno venivano conservati gli atti giuridici, i titoli di possesso. L’iscrizione posta sullo stipite della porta: “A dì 7 maggio morì il R.Padre priore d.Bruno Bragaglia, anno 1864”, ricorda il decesso di uno degli ultimi priori certosini prima dell’incameramento dei beni ecclesiastici da parte del Governo Italiano. Percorrendo lentamente gli ambulacri romanici del chiostro, si possono osservare le volte a botte, le colonnine geminate a tutto tondo e le proporzioni forti e massicce. Addossata alla parete della chiesa, nella galleria nord del chiostro, si scorge la traccia di un lungo sedile – di cui si auspica la ricostruzione – su cui sedevano i monaci per la lavanda dei piedi, fatta dai monaci che uscivano ed entravano nel servizio di cucina. Dal mandatum del Vangelo (lavanda dei piedi)deriva al posto la denominazione di galleria del mandatum. Un modesto ornamento, in un insieme così robusto e un tantino, sembrano apportarlo i pulvini a mammellone e a piramidi rovesciate, quali si ritrovano rispettivamente ad Amalfi e a Ravenna, che sormontano le colonnine lisce su basi attiche. E’ evidente la priorità di questi tre lati del chiostro (XI secolo) rispetto al quarto, agile, festoso, ricco, ricostruito dai monaci, nel XIII secolo, in sostituzione del vecchio, con l’intenzione di riadattarlo agli ambienti della galleria sud. In quest’ultimo, sei pilastri dalle colonnine aderenti, di cui alcune rotonde, perimetrali altre, poggianti tutte su un piccolo rialzo, delimitano la lunghezza del corridoio in cinque zone disuguali. Il susseguirsi di queste, le campate in alto a crociera nervata, gli archi scanalati che si diramano dalle colonnine pensili da un lato e basate dall’altro, la varietà delle colonnine che si dispongono a gruppi di trifore e di quadrifore, le grandi aperture laterali che sollecitano l’occhio all’osservazione degli latri vani, un portale di fondo conferiscono all’insieme un senso di vivacità e di movimento che non si riscontra negli altri ambulacri, dove l’uniformità estetica e le penombre evidenti distolgono meno ed invitano di più al raccoglimento. Ciò che colpisce maggiormente sono le colonnine binate e riunite in gruppi distinti di dieci e di otto. Sopra un supporto calcareo a spigoli scanalati poggiano piccole lastre di pietra variamente lavorate, che fanno da comune basamento ad ogni paio di colonne, le quali si innalzano ora lisce, ora scanalate, ora tortili, ora a tagli aspri difficilmente rintracciabili altrove, ora a spirali, che si prestano, snelle e leggere, al gioco del chiaroscuro. È facile riconoscere in esse la mano dei maestri Cosmati. In ogni colonna un collarino apre gli agili capitelli polistili il cui abaco comune ad ogni coppia sorregge gli archetti elegantemente incurvati, inalveati in altri superiori e sporgenti, che si raccordano su maschere e teste. Grazia, eleganza e snellezza accentuano il contrasto con gli altri tre lati del chiostro di epoca anteriore.
Poiché il chiostro rappresenta il centro della vita monastica, nel suo perimetro sono razionalmente distribuiti gli ambienti dove i monaci svolgevano la loro vita. A destra dell’entrata è ubicata la cucina, di dimensioni vaste e con elementi robusti, il refettorio con a fronte il lavabo per le abluzioni prima dei pasti, la sala capitolare, l’armarium, di cui abbiamo già parlato, la scala d’accesso ai dormitori dei monaci, la sala di lettura, le sale dei monaci, il calefactorium, lo scrittorio, l’auditorium. Prima del chiostro, si può osservare, a sinistra, in fondo al passaggio dei conversi , una porta con una netta decorata da tre eleganti lobi. All’ingresso del chiostro, subito a destra, una porta immette nella cucina, spaziosa e sorretta al centro da una robusta e grezza colonna che ne sostiene il soffitto a volta romana. Simili caratteristiche si riscontrano anche nel retro – cucina. Da un’apertura in pietra praticata alle pareti di destra a di sinistra, le vivande venivano passate sia nel refettorio dei monaci sia in quello dei fratelli conversi. I conversi, infatti, mangiavano in un refettorio diverso che oggi è stato demolito ed anticamente era ubicato alla destra di chi entra nella cucina, come testimoniano ancora tracce di pilastri e di archi all’esterno del muro parietale. Un altro portale che termina con arco a tutto sesto ed è abbellito da una lunetta con le immagini della Vergine e Santi (Antonio e Tommaso), attribuiti a maestri privernati del XIII-XIV secolo, introduce al refettorio dei coristi: un vasto locale, dalla forma rettangolare, spazioso, pieno di luce anche se poco slanciato a causa del pavimento sopraelevato rispetto al livello del chiostro. Le numerose monofore a tutto tondo, strombate in alto, di cui alcune cieche, le colonnine pensili e gli archi a sesto acuto a profilo quadrato, il soffitto a travatura scoperta, che ritroviamo anche nella foresteria e nella infermeria, richiamano la maestosa austerità della chiesa. Sulla parete destra, piuttosto verso il fondo, vi è il pulpito, in parte distrutto dal tempo, con i due archi romanici e la scaletta calcarea, sorretto da blocchi di pietra a cono rovesciato: un monaco, durante i pasti, offriva ai confratelli l’opportunità di nutrire anche lo spirito con la lettura della Sacra Scrittura e dei Padri. Di fronte al refettorio si apre un’edicola interessante per gli elementi architettonici, recuperati e sistemati nel posto, ma importati dal altri luoghi, risalenti al tempo dell’impero romano. Si tratta di tre colonne di materiale diverso, scanalata una, lisce le altre due, le quali sostengono degli archi a tutto sesto, disposti in forma quadrangolare in modo da creare lo spazio sufficiente per un chioschetto che invita alla sosta. Il centro è occupato, attualmente, da una mensa in pietra, sostenuta da un unico piede, formato da una pietra miliare di strada consolare. Anche da altri indizi se deduce che vi siano stati dei rifacimenti perché in origine al posto della mensa doveva esservi una vasca per le abluzioni dei monaci; in basso, infatti, è posta un’epigrafe che ricorda i restauri effettuati dal cardinale Aldobrandini, abate commendatario dell’abbazia sul fineire del XVI secolo: “Petrus Card. Aldobrandinus Clem. VIII ex fratre nepos perp. commendatarius restauravit an.iub.M.D.C.”. 
Maggiore attenzione merita, forse, in quest’edicola il tiburio che, nella varietà delle colonnine, arieggia l’attiguo lato del chiostro; anche in esso, infatti, è riscontrabile l’influsso dei marmorari romani; nell’uno e nell’altro si può notare l’allungamento dei capitelli come a Monreale, sebbene di slancio minore. Dall’edicola, con uno sguardo d’insieme, si riesce ad abbracciare meglio il complesso monumentale nei suoi molteplici e ricchi elementi. Difatti, oltre la caratteristica fuga architettonica delle colonnine degli ambulacri, non sfuggono all’osservatore il profilo della chiesa con la torre lanterna che si eleva al cielo, il terrazzino, le due ali dei fabbricati dei coristi e dei conversi e, in basso, sullo sfondo del lato del chiostro, l’aula capitolare.

Sala del Capitolo
Al centro della galleria orientale del chiostro si apre la sala capitolare fiancheggiata da due bifore con archi a tutto sesto. Il piano, al cui centro è posta la tomba degli abati – l’ultimo sepolto prima dell’invasione napoleonica è stato il Padre De Meulder – è ribassato rispetto all’ambulacro del chiostro, una caratteristica comune do tutte le abbazie cistercensi che risponde all’esigenza di dare slancio alla sala senza invadere la planimetria del dormitorio soprastante. Probabilmente, tanto il portale di accesso a tutto sesto quanto le bifore, anch’esse a tutto sesto e con colonnine binate, anticamente erano riparate da porte e finestre. In basso, lungo il perimetro, sono disposti i sedili di pietra su cui, ogni mattina, i monaci, radunati con l’abate, sedevano durante gli atti capitolari. In questa sala, infatti, venivano trattati i molteplici problemi del monastero, da quelli del lavoro a quelli dell’osservanza regolare, da quelli spirituali e disciplinari a quegli economici e sociali. I fratelli conversi ascoltavano, all’esterno, i sermoni dell’abate nelle vigilie delle grandi solennità liturgiche. Da due fasci di colonne, addossate ai due pilastri centrali, si snodano gli archi e i costoloni fortemente pronunciati che, confluendo ed incrociandosi nelle chiavi di volta, evidenziano meglio il dinamismo della sala nella caratteristica scansione serrata degli spazi, innervati e delimitati dagli elementi che creano una bellezza razionale risultante dalla disposizione euritmica delle parti. Dal dispiegarsi proporzionato delle linee marcate sboccia l’unità armonica dell’ambiente che, ravvivato dalla luce delle retrostanti monofore, si espande e fiorisce sulla porta.

Dormitorio
A Fossanova, come in tutti i monasteri cistercensi, il dormitorio occupa la parte superiore dell’ala orientale del monastero e ad esso si accede attraverso una scala, posta a destra del locutorium, preceduta da una porta di semplice fattura. Quando tutti i monaci dormivano nello stesso locale, secondo la Regola, era detto “dormitorio dei coristi”, per distinguerlo dal “dormitorio dei conversi”, posto nella parte superiore dell’ala occidentale. Nel corso dei secoli venne più volte restaurato, ma sempre furono rispettate le esigenze di coloro che lo abitavano.

Refettorio
Il refettorio di Fossanova è l'ambiente più grande, dopo la chiesa; ciò è dovuto alla necessità di permetttere a centinaia di persone di consumare contemporaneamente il pasto. Il livello del pavimento è più alto di circa un metro rispetto a quello della vicina galleria orientale del chiostro. Suggestivo è il pulpito del rettore, al quale si accede mediante una bella scalinata in pietra scavata nel muro.

Locutorium
Nella Galleria Orientale è posizionato il locutorium, luogo dove il priore al mattino assegnava ai monaci il lavoro del giorno. Il portale, sobrio ed elegante, è formato da due colonne inserite negli spigoli dei muri e sormontate da graziosi capitelli compositi che fanno da sostegno ad un arco a tutto sesto, movimentato da una linea spezzata arabeggiante. A sinistra del corridoio, una porta immette in un piccolo vano sottostante alla gradinata d’accesso ai dormitori dei monaci, il quale serviva, verosimilmente, da luogo di reclusione per quei religiosi che si fossero resi colpevoli di infrazioni particolarmente gravi. 

Armarium
Nella galleria orientale del chiostro, incavato nel muro, vi è una nicchia in cui i monaci depositavano i libri della lectio divina quotidiana. Segue il locale dell’armarium nel cui interno venivano conservati gli atti giuridici e i titoli di possesso. L’iscrizione posta sullo stipite della porta: “A dì 7 maggio morì il R.Padre priore d.Bruno Bragaglia, anno 1864”, ricorda il decesso di uno degli ultimi priori certosini prima dell’incameramento dei beni ecclesiastici da parte del Governo Italiano.

Calefactorium
Nella Galleria Orientale del Chiostro,  dietro una porta spaziosa, si apre l’antico calefactorium dove, intorno ad un’ampia cappa, i monaci trascorrevano le ore invernali intenti a scrivere e a miniare i codici intorno al focolare, indispensabile anche per sciogliere i colori. Il calefactorium, infatti, era affiancato da spaziosi locali necessari per il lavoro dei monaci coristi. Un sarcofago con strigliatura, gettato in un angolo e mancante di ogni riferimento di simbologia cristiana, costituisce un reperto archeologico forse riutilizzato dai monaci stessi.

Infermeria dei Conversi
L’infermeria dei fratelli conversi è ubicata fuori della cinta di clausura, a sud del refettorio. Sebbene presenti la stessa architettura del refettorio e della l’infermeria dei monaci coristi, con archi acuti a sagoma quadrata, tetto a vista ecc., se ne distacca, tuttavia, per un senso di luminosità diffusa e di maggiore ampiezza volumetrica, per la presenza di ripostigli incavati nel muro al posto degli armadietti, per l’aggiunta di un secondo ordine di finestre grandi a sesto acuto e dalla profonda strombatura, capaci di far piovere all’interno tanta luce ed aria, quanta ne richiedeva la salute degli infermi e l’operatività assistenziale. Ruderi perimetrali all’esterno fanno pensare delle stanzette di servizio per il personale curante. Il fabbricato è passato recentemente in proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Latina.

Casa di San Tommaso
Uscendo dal locutorium, attraverso una scaletta, si raggiunge la stanza nella quale morì san Tommaso d’Aquino. Essa con un’altra piccola camera, che serviva forse da cucina, aveva in fondo un piccolo vano: il tutto costituiva un appartamento dell’abate.  Successivamente il cardinale Francesco Barberini (1646?) trasformò i locali  in cappella che per lungo tempo è stata meta di pellegrinaggi. Con grande munificenza il detto cardinale la fece decorare con affreschi, oggi del tutto scomparsi, e con un bel soffitto a cassettoni, oggi ravvivato grazie ai recenti restauri. Sempre nel secolo XVII, un bel rilievo di scuola berniniana – secondo altri, però, opera dei discepoli dell’Algardi – fu collocato sopra l’altare: rappresenta il momento in cui san Tommaso, prima di morire, interpreta, in atteggiamento ispirato, il Cantico dei Cantici ai monaci che, commossi, ne fissano il volto o ne trascrivono le parole. I Barberini lasciarono, come segno della loro munificenza e della loro presenza, le api che ornavano il loro stemma gentilizio; quelle in oro, purtroppo, che arricchivano l’altare del Santo sono state asportate da mani sacrileghe, come si arguisce dalle tracce che sono rimaste. Il muro di spina della cappella conserva due distici latini con i quali l’ignoto autore, rifacendosi al tema evangelico della lucerna e giocando sui termini secondo il gusto paradossale della poesia seicentesca, lega indissolubilmente la vetustà dell’abbazia alla fama di san Tommaso:

OCCIDIT HIC THOMAS LUX UT FORET AMPLIOR ORBI
ET CANDELABRU SIC NOVA FOSSA FORET
(qui è morto Tommaso per divenire luce più splendida al mondo e 
Fossanova ne divenisse così come il candelabro)
EDITUS ARDETI LOCUS ET NON FOSSA LUCERNA
HAC IGITUR FOSSAM QUIS NEGET ESSE NOVAM? 
(E’ stato innalzato il luogo per essa che luceva e non è stata affossata la lucerna; chi dunque potrebbe negare che questa fossa sia veramente nuova?)

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