sabato 6 aprile 2013

Museo Cappella San Severo

Situato nel cuore del centro antico di Napoli, il Museo Cappella Sansevero è un gioiello del patrimonio artistico internazionale. Creatività barocca e orgoglio dinastico, bellezza e mistero s’intrecciano creando qui un’atmosfera unica, quasi fuori dal tempo.
Tra capolavori come il celebre Cristo velato, la cui immagine ha fatto il giro del mondo per la prodigiosa “tessitura” del velo marmoreo, meraviglie del virtuosismo come il Disinganno ed enigmatiche presenze come le Macchine anatomiche, la Cappella Sansevero rappresenta uno dei più singolari monumenti che l’ingegno umano abbia mai concepito.
Un mausoleo nobiliare, un tempio iniziatico in cui è mirabilmente trasfusa la poliedrica personalità del suo geniale ideatore: Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero.
 
Origini
 
Le origini della Cappella Sansevero sono legate a un episodio leggendario. Narra, infatti, Cesare d’Engenio Caracciolo nella Napoli Sacra del 1623 che, intorno al 1590, un uomo innocente, trascinato in catene per essere condotto in carcere, passando dinanzi al giardino del palazzo dei di Sangro in piazza San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta di detto giardino e apparire un’immagine della Madonna. Egli promise alla Vergine di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione, qualora fosse stata riconosciuta la propria innocenza: scarcerato, l’uomo tenne fede al voto. L’immagine sacra divenne allora meta di pellegrinaggio, dispensando molte altre grazie.
Poco dopo, anche il duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro, gravemente ammalato, si rivolse a questa Madonna per ottenere la guarigione: miracolato, per gratitudine fece innalzare, lì dove era apparsa per la prima volta la venerabile effigie (oggi visibile in alto sull’Altare maggiore), una “picciola cappella” denominata Santa Maria della Pietà o Pietatella. Fu però il figlio di Giovan Francesco, Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria, che intraprese nei primi anni del ’600 grandi lavori di trasformazione e ampliamento, modificando l’originario sacello in un vero e proprio tempio votivo destinato a ospitare le sepolture degli antenati e dei futuri membri della famiglia.
Della fase seicentesca della Cappella Sansevero sono rimaste pressoché inalterate solo le dimensioni perimetrali e la snella architettura dell’insieme, nonché la decorazione policroma dell’abside; sono ancora visibili, inoltre, quattro mausolei nelle cappellette laterali, mentre altri di cui si ha notizia sono stati rimossi. L’attuale assetto della Cappella e la quasi totalità delle opere in essa contenute, infatti, sono frutto della volontà di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, che a partire dagli anni ’40 del ’700 riorganizzò la Cappella secondo criteri del tutto nuovi e personali.
Benché molti particolari dell’aspetto seicentesco del tempio gentilizio ci sfuggano, è certo che già allora esso dovette essere uno scrigno d’arte: lo testimonia, tra gli altri, la Guida di Napoli di Pompeo Sarnelli (1685), che definì la cappella dei di Sangro “grandemente abbellita con lavori di finissimi marmi, intorno alla quale sono le statue di molti degni personaggi di essa famiglia co’ loro elogi”. Quel che è sopravvissuto delle opere seicentesche conferma sostanzialmente tale impressione, anche se la magnificenza dei lavori settecenteschi mette in ombra quanto eseguito prima dell’attività mecenatesca di Raimondo di Sangro.
La sistemazione seicentesca della Cappella rimase inalterata fino agli anni ’40 del ’700, quando pose mano all’ampliamento e all’arricchimento del tempio Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. Seguì un periodo di grande fervore, in cui egli profuse nell’impresa forze e sostanze, impegnandosi con entusiasmo e competenza, chiamando presso di sé pittori e scultori rinomati, sovrintendendo personalmente alle fasi di lavorazione, scegliendo e talvolta realizzando i materiali. L’idea era quella di farne un tempio maestoso, degno della grandezza del casato, arricchendolo di opere di altissimo pregio pur senza alterare la primitiva struttura e cercando nel nuovo assetto l’idonea collocazione per i mausolei preesistenti. Fu così che vennero alla luce opere come la Gloria del Paradiso, la Pudicizia e le altre statue delle Virtù, il Cristo velato.
Sin dalle origini, dunque, la Cappella è circonfusa di un alone leggendario: il racconto di d’Engenio Caracciolo è certamente intessuto con particolari fantasiosi, ma la suggestione resta. Il ruolo avuto da Alessandro di Sangro nelle vicende edificatorie della Cappella Sansevero, peraltro, è confermato – oltre che da diverse testimonianze d’archivio – dall’iscrizione posta sulla porta principale del complesso monumentale, che recita: “Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria destinò questo tempio, innalzato dalle fondamenta alla Beata Vergine, a sepolcro per sé e per i suoi nell’anno del Signore 1613”.

Fasto settecentesco

La sistemazione seicentesca della Cappella rimase inalterata fino agli anni ’40 del ’700, quando pose mano all’ampliamento e all’arricchimento del tempio Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. Seguì un periodo di grande fervore, in cui egli profuse nell’impresa forze e sostanze, impegnandosi con entusiasmo e competenza, chiamando presso di sé pittori e scultori rinomati, sovrintendendo personalmente alle fasi di lavorazione, scegliendo e talvolta realizzando i materiali. L’idea era quella di farne un tempio maestoso, degno della grandezza del casato, arricchendolo di opere di altissimo pregio pur senza alterare la primitiva struttura e cercando nel nuovo assetto l’idonea collocazione per i mausolei preesistenti. Fu così che vennero alla luce opere come la Gloria del Paradiso, la Pudicizia e le altre statue delle Virtù, il Cristo velato.
La complessa personalità, la cultura cosmopolita, la genialità di inventore, gli studi alchemico-scientifici, la militanza massonica, il sentimento radicato della storia fecero di Raimondo di Sangro un mecenate generoso, ma esigentissimo: ogni singola opera, infatti, doveva svolgere una funzione insostituibile nel progetto iconografico complessivo da lui immaginato, e ignoto probabilmente agli stessi artisti. È per tale motivo che nella Cappella Sansevero, come mai in altro monumento, si avverte la presenza di una committenza che, sovrastando a tratti ogni singola presenza artistica, autorevolmente si impone infondendo energia, coerenza, suggestione, respiro europeo all’intero complesso.
Il principe di Sansevero mantenne a grandi linee la semplice struttura architettonica della fase seicentesca. La Cappella presenta un’unica navata a pianta longitudinale con quattro archi a tutto sesto per lato; il cornicione, costruito con un mastice di invenzione del di Sangro, corre lungo tutto il perimetro al di sopra degli archi. La volta a botte è interrotta da sei finestre strombate che illuminano l’intera Cappella; all’altezza dell’abside, poi, si può ammirare il gioco illusionistico di una finta cupoletta.
Nel 1901 fu completata la pavimentazione in cotto napoletano, smaltato in giallo e azzurro – colori del casato di Sangro – in corrispondenza dello stemma gentilizio. Il bellissimo pavimento settecentesco, con l’enigmatico motivo a labirinto, realizzato con un sistema inventato anch’esso dal principe, andò distrutto alla fine del XIX sec.: è possibile oggi vederne un campione nel passetto antistante la tomba di Raimondo di Sangro. Da tale passetto si accede sulla sinistra a una scala che conduce alla Cavea sotterranea, che il principe ideò ma non fece in tempo a vedere terminata.
Infine, sulla porta laterale, risalente al periodo settecentesco, si può leggere una lunga ed eloquente iscrizione: “Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero don Raimondo di Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati” (trad. it. di Maria Alessandra Cecaro).
 
Progetto iconografico
 
L’aspetto attuale della Cappella Sansevero risponde a un progetto iconografico ben preciso, ideato dal principe Raimondo di Sangro e posto in essere dagli artisti che lavorarono sotto la sua supervisione. Dall’ingresso principale si accede all’unica navata, in fondo alla quale si apre l’abside con l’Altare maggiore. Le due pareti laterali presentano quattro archi a tutto sesto, ciascuno dei quali accoglie un monumento sepolcrale, fatta eccezione per il terzo arco alla sinistra dell’ingresso principale, che sormonta l’accesso laterale, e per il terzo arco sulla destra, che immette nel passetto ove è la Tomba di Raimondo di Sangro.
I mausolei ospitati nelle cappellette laterali sono intitolati agli avi illustri della famiglia di Sangro, mentre i gruppi scultorei addossati ai pilastri, che separano gli archi, sono dedicati alle donne passate e presenti del casato (salvo il Disinganno, eretto alla memoria di Antonio di Sangro, padre di Raimondo). Sono certamente queste ultime statue il fulcro dell’originale progetto iconografico del principe di Sansevero: esse rappresentano infatti diverse Virtù, tappe di un cammino iniziatico mirante alla conoscenza e al perfezionamento interiore. Non meno importante nel contesto simbolico complessivo è poi il pavimento con il motivo a labirinto, ideato dal principe e realizzato da Francesco Celebrano: segno antichissimo, il labirinto rappresenta la difficoltà del percorso sapienziale.
Quanto al Cristo velato, capolavoro dell’arte mondiale, esso – nelle intenzioni del principe – doveva essere collocato nell’ambiente ipogeico da lui progettato, quella Cavea sotterranea destinata a ospitare anche i futuri sepolcri dei Sansevero, ma che non fu mai portata a termine così come l’aveva immaginata il geniale mecenate (l’aspetto attuale della Cavea è dovuto a interventi successivi alla sua morte). Il Cristo di Giuseppe Sanmartino avrebbe dovuto essere rischiarato dalla fiamma di un lume perpetuo, invenzione del principe di Sansevero anch’essa pregna di rimandi esoterici.
Il ricco simbolismo presente nelle opere della Cappella Sansevero, che per la sua complessità non si presta comunque a un’interpretazione chiara e univoca, non esaurisce il significato del progetto disangriano: oltre che tempio di virtù e dimora filosofale, la Cappella Sansevero è anche e soprattutto un monumento ideato per esaltare il rango del casato e rendere immortali le glorie dei suoi membri. Non va dimenticato, inoltre, che nel commissionare i lavori agli artisti Raimondo di Sangro tenne presente la lunga tradizione teorica, plastica e figurativa che lo aveva preceduto: per fare l’esempio più evidente, quasi tutte le allegorie delle Virtù prendono a modello i dettami iconografici dell’Iconologia di Cesare Ripa (1593), opera di cui – non a caso – lo stesso di Sangro finanziò una monumentale riedizione in cinque volumi. Tuttavia, le Virtù di Sansevero non recepiscono mai il modello passivamente, ma lo arricchiscono, lo modificano e se ne discostano per particolari più o meno evidenti, ma sempre significativi.
La creativa interazione tra Raimondo di Sangro e i suoi artisti ha reso la Cappella Sansevero un luogo inimitabile di arte, magnificenza e suggestione, alla cui realizzazione il principe dedicò gran parte della sua vita e dei suoi averi. A riprova della cura con cui egli elaborò ogni dettaglio del suo affascinante progetto, si ricorda che nel suo testamento raccomandò agli eredi di non modificare nulla dell’assetto e dell’apparato simbolico da lui concepiti. È per questo che si può senz’altro affermare che la Cappella Sansevero costituisce, più di ogni sua altra opera letteraria o invenzione, il messaggio lasciato da Raimondo di Sangro alla posterità.
 
Il Cristo Velato
 
Posto al centro della navata della Cappella Sansevero, il Cristo velato è una delle opere più note e suggestive al mondo. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere eseguita da Antonio Corradini, che per il principe aveva già scolpito la Pudicizia. Tuttavia, Corradini morì nel 1752 e fece in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo, oggi conservato al Museo di San Martino.
Fu così che Raimondo di Sangro incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino, di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”.
Sanmartino tenne poco conto del precedente bozzetto dello scultore veneto. Come nella Pudicizia, anche nel Cristo velato l’originale messaggio stilistico è nel velo, ma i palpiti e i sentimenti tardo-barocchi di Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione molto distanti dai canoni corradiniani. La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato.
La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità.

Il Cristo Velato: il capolavoro

Il Cristo velato del Sanmartino è uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi. Fin dal ’700 viaggiatori più o meno illustri sono venuti a contemplare questo miracolo dell’arte, restandone sconcertati e rapiti. Tra i moltissimi estimatori si ricorda Antonio Canova, che durante il suo soggiorno napoletano provò ad acquistarlo e si tramanda dichiarasse in seguito che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile.
E ancora: nelle sue memorie di viaggio il marchese de Sade esaltò “il drappeggio, la finezza del velo […] la bellezza, la regolarità delle proporzioni dell’insieme”; Matilde Serao consacrò in un densissimo scritto tutta la passione significata dalle fattezze del Cristo; il maestro Riccardo Muti ha scelto il volto del Cristo per la copertina del suo Requiem di Mozart; lo scrittore argentino Hector Bianciotti ha parlato di “sindrome di Stendhal” al cospetto del velo marmoreo “piegato, spiegato, riassorbito nelle cavità di un corpo prigioniero, sottile come garza sui rilievi delle vene”. Da ultimo, in un’intervista rilasciata a «Il Mattino», Adonis, uno dei più grandi poeti contemporanei, ha definito il Cristo velato “più bello delle sculture di Michelangelo”.
La fama del Cristo velato cresce ogni giorno di più. Un sondaggio tenutosi durante la XVII edizione della fiera libraria Galassia Gutenberg (aprile 2006) lo ha incoronato monumento simbolo di Napoli. Infine, nella primavera del 2008 la Regione Campania ha scelto la foto del Cristo di Sanmartino per una campagna pubblicitaria volta a rilanciare l’immagine della città, mortificata dalla nota crisi dei rifiuti.

Il Cristo Velato: la leggenda del velo

La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe di Sansevero.
In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua. Ricordiamo tra questi un documento conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riporta un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro (il costo complessivo della statua ammonterà alla ragguardevole somma di cinquecento ducati). Nel documento, datato 16 dicembre 1752, il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo…”. Anche nelle lettere spedite al fisico Jean-Antoine Nollet e all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi, il principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Lo stesso Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, specifica che il Cristo è “tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.
Il Cristo velato è, dunque, una perla dell’arte barocca che dobbiamo esclusivamente all’ispiratissimo scalpello di Sanmartino e alla fiducia accordatagli dal suo committente. Il fatto che l’opera sia stata realizzata da un unico blocco di marmo, senza l’aiuto di alcuna escogitazione alchemica, conferisce alla statua un fascino ancora maggiore.
La leggenda del velo, però, è dura a morire. L’alone di mistero che avvolge il principe di Sansevero e la “liquida” trasparenza del sudario continuano ad alimentarla. D’altra parte, era nelle intenzioni del di Sangro – in questa come in altre occasioni – suscitare meraviglia: non a caso fu egli stesso a constatare che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori”.

 

 
 


 
 

 
 
 

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